Negli ultimi anni, la tecnofobia è diventata quasi uno sport nazionale: ci si lamenta di ogni novità tecnologica come fossimo tornati a Cristo che scende dal callo di pietra. Eppure, in un mondo in cui l’IA genera testi, musica, immagini e pure scuse per farci uscire dal letto, resistere a oltranza non è solo controproducente, è tragicomico.
Immagina un docente che vieta Google Translate perché “spuntano le idee strane”. Oppure chi considera le presentazioni PowerPoint pericolose come una minaccia nucleare. Il problema non è la tecnologia in sé ma una paura irrazionale e conservatrice che, col pretesto di “difendere” metodi tradizionali, finisce per paralizzare l’educazione.

Perché la tecnofobia fa male all’insegnamento
- Restringe la creatività. Quando si bandisce l’IA, si taglia fuori uno strumento che può aiutare nel generare idee, nel migliorare stesure, nel proporre spunti originali.
- Ignora il mondo reale. I ragazzi vivono già nel digitale: smartphone, social, video on demand. Parlare di realtà “vera” come se fosse su un altro pianeta è demenziale.
- Incolpa l’innovazione per il suo stesso fallimento. Se un docente non capisce una tecnologia, è più facile dire “è colpa vostra” piuttosto che mettersi a studiare. Il risultato? L’IA diventa il capro espiatorio di ogni resa didattica.
Un po’ della mia: biografia diagonale tra bit e aula
Tante generazioni, tra cui la mia, sono state accusate di avere facilitazioni grazie alla tecnologia. Ma dentro quell’accusa si annidava anche un bel po’ di ageismo. Personalmente, ho avuto il pc a 12 anni, internet a 14, il cellulare a 16. Non era solo intrattenimento: era il modo per entrare in un mondo dove il digitale poteva aprire porte. Ed è successo. Quegli strumenti hanno creato opportunità di lavoro che i titoli di studio – presi anche con ottimi voti – non avrebbero mai garantito da soli.
Ecco perché non riesco a vedere l’IA come un nemico. La vedo come una compagna di viaggio da conoscere, usare, anche mettere in discussione, ma non temere. Sono convinto che un uso sano dell’intelligenza artificiale possa essere insegnato alle nuove generazioni, ed è nostro dovere farlo. Altrimenti lo impareranno comunque – ma da TikTok.
Gli insegnanti tecnofobi che conosco? Li ho incrociati nei commenti sui social, nei post indignati, negli articoli nostalgici di chi vorrebbe tornare a una scuola fatta di calamaio e memoria a oltranza. Nella mia esperienza professionale diretta, per fortuna, ho conosciuto soprattutto colleghi e colleghe curiosi, aperti, disposti a mettersi in discussione. Ma il rumore di chi resiste è ancora troppo forte per non parlarne.

Esempi concreti: dove servirebbe meno paura e più testa
- Circular writing con l’IA. Permettiamo agli studenti di usare strumenti come ChatGPT o Bard per rifinire bozze: domandiamo loro come hanno modificato un testo proposto. Non vedi copiare? Vedi riflettere.
- Analisi dati made easy. Turni scolastici, voti, presenze: Excel e AI aiutano a individuare trend senza impazzire in tabelle Excel da pensionato (cit.).
- Laboratori digitali. Non serve già lo spazio maker: basta un’aula multimediale dove sperimentare, cambiare, riprovare. Che Nozioni? Internet, videogiochi educativi, montaggio video.
- Formazione per i formatori. Ebbene sì, è tempo di “docenti formatore”. Ogni insegnante dovrebbe avere diritto (e dovere) di formarsi su IA e nuove tecnologie, a prescindere dall’età.
Ad esempio, per chi volesse vincere la tecnofobia, c’è un portale molto interessante che parla di tecnologia: Wiki-Tech.
Vincere la tecnofobia: le mosse concrete
- diagnosi generazionale: la tecnofobia non è uguale in ogni fascia di età. Ci sono formatori che resistono perché “non faccio l’account social”; altri che ignorano l’IA perché “non è roba mia”. Serve sensibilizzare.
- formazione strutturata: basta corsi sporadici. Serve un percorso serio: IA per la didattica, sicurezza digitale, libertà di sperimentare.
- coinvolgere i ragazzi: niente compiti noiosissimi. Meglio progetti in cui usano strumenti per migliorare una bozza, creare un logo, analizzare dati. Saranno loro i primi a scoprire i vantaggi.
- creare comunità professionali: gruppi di docenti che condividono esperienze, fallimenti inclusi, e soluzioni di IA applicata al quaderno digitale.

Psicologia del cambiamento: perché resistere fa male
È più facile dire “no” perché è ripetitivo, comodo, ti fa sentire al sicuro. Ma la rabbia passiva contro la tecnologia genera un cortocircuito educativo. Il risultato? Giovani arrabbiati, insegnanti che manifestano un vento di regressione, competenze che rimangono su pergamena (finalmente digitalizzata) ma non accompagnate da strumenti reali.
Qui non si tratta di moralismo digitale: si tratta di restituire dignità alla formazione. Dare senso all’uso del PC, alla scrittura collaborativa online, all’analisi dati di un sondaggio. Si tratta di preparare le nuove generazioni a un mondo in cui L’IA non è un’opzione: è un compagno di squadra.
Smettiamola di avere paura dell’IA
La tecnofobia è la bomba ecologica del cervello: avvelena, rallenta, blocca. Ci presenta il domani come minaccia, eppure quel domani è già qui, con smartphone che sanno riconoscere l’ironia. Invece di irrigidirci, dovremmo armarci di curiosità e pragmatismo. Io, che ho iniziato a decodificare la realtà digitale quando le connessioni si chiamavano modem, non difendo nessun passato dorato. Io difendo il futuro — e invito chi ha ancora paura a fare lo stesso: rimbocchiamoci le maniche, apriamo le menti, insegniamo ai giovani non a temere, ma a creare. Perché chi ha avuto il primo pc a 12 anni lo sa bene: la vera paura è quella di restare fermi.





